Tra memorie contadine e rispetto per gli animali, Soldato mulo va alla guerra. Intervista all’autrice Patrizia Camatel

 

“Tutto questo mi portavo sul groppone, quando la tradotta mi ha lasciato qui, al fronte di un destino quasi certo, all’avventura non cercata di tanti, troppi, animali da campagna come me; giovani membra svezzate dal contado, tratti fuori a forza dalle aie degli antenati, tra mugugni e strepiti e canti patriottici, requisiti in un colpo solo dallo Stato i nati della vacca, della donna, della cavalla e della mite asina. Sicché se ne vanno, chi trascinando i piedi, chi trottando come i puledri condotti alla fiera, chi scotendo il capo dalle corde e lasciandosi alle spalle lamenti e belati e ragli che straziano l’aria.”

Massimo Barbero è solo in scena. Le sue parole fibrillano nell’aria straziata del suo racconto, scuotono i pensieri di chi lo ascolta. La sua è una narrazione singolare, a stretto contatto con il pubblico, come già lo era la precedente, ‘Pinin e le masche’, che trattava del rapporto uomo-natura, e il monologo che presenta è ‘Soldato mulo va alla guerra’, il nuovo spettacolo del Teatro degli Acerbi, da un progetto di Patrizia Camatel. La pièce, realizzata in collaborazione con l’ISRAT e l’Archivio della Teatralità Popolare, andrà in scena, in forma di studio, in attesa del debutto che avverrà nell’inverno, sabato prossimo, 23 settembre, alle ore 21 presso il parco della rimembranza (o in caso di maltempo, nell’ex chiesa dei Batù) di Casorzo, nell’ambito della rassegna Cuntè Munfrà. In replica, sarà riproposta anche domenica 24 alle ore 18 alla Cascina del Racconto di Asti (entrambi gli appuntamenti saranno a ingresso gratuito).

Il testo, che vanta la consulenza storica di Nicoletta Fasano e Mario Renosio, è di Patrizia Camatel, abile cesellatrice di versi ed emozioni, che ci ha raccontato alcune curiosità sullo spettacolo.

Le origini

“L’idea da cui nasce ‘Soldato mulo va alla guerra’ – illustra Patrizia Camatel – è l’incontro di due desideri artistici, il mio e quello di Massimo (Barbero, l’attore, ndA). Da una parte, la sua volontà di narrare le proprie origini, in un omaggio a chi, della sua famiglia, ha combattuto la Prima Guerra Mondiale, di cui ricorre il centenario. Dall’altra, il mio sogno di parlare degli animali, del loro essersi sacrificati per noi uomini, padroni che spesso non meritiamo tutta la loro stima. Un giorno, poi, mi trovavo in una biblioteca e lo sguardo mi cadde su ‘Il bravo soldato mulo’ di Lucio Fabi, libro in cui è descritto il rapporto tra uomini al fronte e i loro animali, dalle bestie da soma quali muli, asini e cavalli, al bestiame per l’alimentazione come bovini e suini, fino ai piccioni viaggiatori e ai cani utilizzati come soccorso per i feriti, sorveglianza di prigionieri, addirittura inviati al combattimento come kamikaze.” E qui, Patrizia comincia a raccontare l’impiego degli animali, il loro sacrificio, il tacito accordo d’obbedienza, la loro bellezza spirituale. Nella sua voce, c’è l’emozione di chi ha riversato il cuore nel proprio operato e la sincerità caparbia di chi non ha più dubbi su che cosa scrivere.

Soldati e amici a 4 zampe: una stessa miserabile sorte

“Ho subito capito che, in guerra, siamo tutti simili – spiega ancora l’autrice – perché è comune la sorte di questi esseri mandati a combattere, allo sbaraglio. Identici l’inconsapevolezza e l’anonimato. Non trovo molta differenza tra lo sguardo vacuo di un soldato costretto a lottare all’oscuro dei piani di conquista, delle alleanze e delle strategie e quello di un mite asinello forzato a seguire ciecamente il padrone. Trovo, in entrambi gli aspetti, mancanza di umanità e di rispetto; dunque, proprio su questo ho cercato di lavorare. Volevo che tutti noi tentassimo di avere un’attenzione diversa per i nostri amabili compagni, un nuovo sguardo, meno superficiale” In questo intento, le è stato di grande aiuto anche il pensiero del teologo e biblista astigiano Paolo De Benedetti, che – per primo – ha ipotizzato una teologia della salvezza degli animali. “Dopotutto, come dice De Benedetti – continua la Camatel – sarebbe bello che in Paradiso ci tenessero compagnia anche i nostri cani, gatti, cavalli… Le poesie di questo grande concittadino mi hanno fatto riflettere soprattutto su quanto i nostri amici a quattro zampe vivano davvero una guerra quotidiana, caratterizzata da continua sofferenza.”. In questo modo, lo spettacolo assume un taglio animalista, come animalisti sono l’autrice e l’interprete, ma solo per restituire la voce a chi l’ha persa o non l’ha mai avuta: vittime di una guerra combattuta sì nelle trincee, ma anche tra le mura di allevamenti intensivi e in mezzo ad altri mezzi di tortura. La volontà è, infatti, quella di celebrare la bellezza della fragilità, sia quella degli uomini sia quella degli animali, tutti combattenti in quest’ardua battaglia che è la vita.

Giuseppe Zabert, un collage di vite e sentimenti

Nel caleidoscopico condensato di testimonianze da cui ha attinto per il suo testo, l’autrice si è concentrata particolarmente sulle testimonianze, tra cui anche lettere e diari, degli avi di Barbero stesso. Il risultato è un elaborato intimo e sincero, che si fa foriero di una memoria contadina troppo spesso dimenticata. Memoria impersonata soprattutto dal protagonista, Giuseppe Zabert, di Valfenera, classe 1897, figlio di mezzadri, appartenente alla famiglia della nonna materna dell’attore. In lui, frammenti e schegge di vite di altri familiari e compaesani inviati al fronte si mescolano e intersecano, in un collage di esistenze che ha il sapore della terra arida del Carso e il profumo dolce dell’amore di chi non si è mai stancato di raccontare le loro storie. “Il copione è una storia di storie – aggiunge ancora la Camatel– in cui tutto è documentato. Tuttavia, non è una rielaborazione drammaturgica di un testo di testimonianza storica, ma una vicenda di mia invenzione, che parte da aneddoti e curiosità realmente avvenute, cucite insieme con cura”. “È il primo monologo che scrivo – confessa, infine – e il primo lavoro per un collega. Dunque, la tensione è molta, ma indubbiamente sento quest’opera molto viva, perché vissuta. Sia io che Massimo ci teniamo molto, perché ci sono tanti pezzi di noi.” Così, Patrizia ci saluta, lasciandoci a immaginare tutti quei brandelli di pensieri e di vita vera che animano questa narrazione, mentre essa stessa diventa vita, quella di chi crede ancora nella bellezza e nel rispetto.

Irene Conte

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